La condotta degli atleti nel randori

Le regole di ingaggio

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Gli appuntamenti natalizi di Pomigliano d’Arco, Bardonecchia e Lignano Sabbiadoro vedono i nostri migliori atleti impegnati nelle tradizionali giornate dedicate al randori. L’osservatore esterno noterà come l’ardore agonistico e l’imperituro desiderio di vittoria inducano talvolta il judoka a travisare il senso proprio di quegli allenamenti e ad adottare condotte e strategie che sono per lo più finalizzate a condizionare gli avversari in vista delle successive competizioni ufficiali.

Ebbene, l’odierna analisi di diritto si focalizza sulle dinamiche di combattimento che nel corso del randori - per tattica, impeto e “mestiere” - ostacolano il confronto al punto da ledere l’incolumità dell’avversario. Ci si chiede in particolare quali siano le regole legali d’ingaggio da osservare durante il combattimento e se un atleta può rispondere civilmente e penalmente dell’infortunio che abbia cagionato al proprio contendente in forza di un’azione che travalica le regole disciplinari e di contesto.

Il caso di specie riguarda un tentativo di proiezione in suwari kata guruma con presa incrociata, bloccato da una difesa Go estremamente aggressiva. Uke[1], preso sul tempo, piuttosto che accettare la proiezione e/o provare a girare in volo, decide di arrestare di forza l’azione di Tori[2], infliggendogli volontariamente una violenta ginocchiata al costato, produttiva della frattura di due costole.

In via preliminare, al fine di tracciare i limiti di comportamento da adottare durante il randori è necessario risalire alla fonte normativa che stabilisce quali siano le regole e/o i principi ad esso applicabili.

Il termine randori compare nell’ambito del progetto tecnico federale 2015 relativo all’attività giovanile[3], laddove viene stabilito: “Il RANDORI DAY[4] “ha la finalità di aggregare i giovani Judoka attraverso un allenamento collettivo che li porti a maturare nuove esperienze e, progressivamente, ad affrontare le questioni relative al pre-agonismo e quindi all’agonismo puro. Nel TACHI-WAZA vengono considerate azioni proibite le stesse azioni considerate tali nell’attività formativa propedeutica alla competizione, riservata alle classi fanciulli e ragazzi”.

Il progetto FIJLKAM attribuisce al randori intenti di promozione delle azioni di judo positivo, di prevenzione degli infortuni e di problem solving, favorendo negli atleti l’implemento delle capacità di gestione delle “situazioni” tipiche del combattimento. La sua portata educativa e sociale, unita ai valori di crescita virtuosa sotto il profilo tecnico e psicofisico degli atleti, va senz’altro estesa alle classi maggiori, per le quali restano proibite le azioni non ammesse in sede di gara.

Accanto ai principi generali sopra esposti, l’inquadramento comportamentale del randori lo si ricava dal significato tradizionale. Ran traduce la confusione, Dori il controllo, la padronanza, il ridurre a quiete. Randori dunque, con qualche licenza, può essere tradotto come “caos calmo”. Una contraddizione in termini tipica della tradizione orientale (yin yang, ki-to), che richiama il contrasto tra ciò che l’atleta vede all’esterno e ciò che, ordinatamente, il suo spirito dovrebbe compiere nell’affrontare quell’esperienza: ricercare l’ippon, liberare il corpo, renderlo creativo, stemperare le paure connesse all’attribuzione di un punteggio, bandire tattiche ed ostruzionismi tipici della gara che sono da ostacolo alla miglior gestione della propria energia (seiryokuzenyo), al confronto costruttivo, al reciproco miglioramento ed al concetto di altruità (Jitakyoei).

Conclude la disamina la Corte di Cassazione che, rileggendo in chiave moderna il concetto di randori, ha statuito che esso debba consistere nello “studio reciproco dei colpi e delle tecniche sportive, per un complessivo miglioramento e coordinamento dei movimenti propri della disciplina praticata”…omissis…richiede sempre nel comportamento dei contendenti un maggior controllo dell'ardore agonistico ed una prudenza diretta a non arrecare pregiudizi fisici all'avversario, specie allorquando si fronteggino atleti di diversa esperienza e capacità”. Di qui la differenza con lo shiai, caratterizzato dalla “specifica finalità di dominare l'avversario, attraverso l’utilizzo di ogni movimento e colpo - sportivamente consentito - idonei a renderlo inerte”.

In termini pratici, l’atleta deve dunque utilizzare il randori come mera opportunità di sperimentazione - sia in attacco che in difesa - di modo che, ove l’avversario esegua efficacemente una tecnica, non debbano esservi ragioni per impedire violentemente che la stessa porti ad un ippon che formalmente non verrà mai assegnato.

Ora, se è vero che negli sport di combattimento, definiti dalla giurisprudenza “a violenza necessaria” (es. box, judo, taekwondo, etc.) vi è un teorico innalzamento del rischio di infortuni che porta ad accettare in maniera fisiologica che essi possano verificarsi, va comunque evidenziato che il fatto lesivo “non può e non deve mai essere conseguenza di colpi inferti per dolo, come, per esempio, nei casi in cui l'esercizio dello sport divenga solo l'occasione per ledere volontariamente l'avversario ovvero per l'esplicazione di una violenza eccessiva, ulteriore a quella c.d. "di base" necessaria per lo svolgimento dello sport[5]."

L’atleta che abbia inferto all’avversario una lesione in forza di un’azione incompatibile con l’evento randori ed inconciliabile con i principi disciplinari del judo e con la linea naturale di rischio della pratica non può dunque andare esente da responsabilità, invocando a propria discolpa (c.d. causa di giustificazione) di aver agito nell’esercizio dell’attività sportiva, atteso che egli è sempre tenuto a bilanciare il proprio comportamento alle circostanze e all’avversario che fronteggia, nel rispetto delle norme generali di prudenza e delle regole tecniche della disciplina praticata.

Va da sé che ove sia evidente, nel corso del randori, la volontà di cagionare un danno all’avversario, attraverso un’azione che viola le “regole di gioco” ed il grado di irruenza richiesta durante l’allenamento (es. azioni di trazione/torsione spropositata nei kansetsu, di persistenza eccessiva dello shime, di percussione con le ginocchia nei gaeshi), l’atleta risponderà del reato di lesioni che abbia provocato all’avversario, con obbligo al risarcimento del danno nei suoi confronti.

In conclusione, da quanto innanzi argomentato è possibile ricavare la seguente massima:

L’atleta è penalmente e civilmente responsabile delle lesioni provocate all’avversario durante il corso del randori, laddove l’azione del primo, posta in essere con l’intento di ledere, travalichi le regole tecniche e/o di cautela richieste dall’evento e dal grado di preparazione dell’avversario.

Avv. Fabio Della Moglie

scritto il 19 dic 2016
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