Fare judo

Una guida per la vita

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Un distinto anziano signore con baffi, esile e diritto come una spada, vi guarda con espressione mite. È il professor Jigoro Kano, creatore del Judo. Il suo ritratto è appeso in tutte le palestre in cui si pratica quest'arte. E non va affatto d'accordo con l'immagine che comunemente si ha del Judo. Questa terribile lotta giapponese, per chi non la conosce, sembra consistere essenzialmente in uno spietato esercizio della violenza, nella mossa segreta e micidiale, nell'urlo di combattimento, nella proiezione fulminea, nel tonfo sinistro dei corpi che si schiantano. E non si capisce che cosa c'entrino gli occhi sereni e placidi del professor Kano che, dall'alto, contemplano i contendenti.
Per capirlo bisogna entrare nello spirito del Judo. Il quale non è violenza, ma controllo della violenza; non è aggressione, ma partecipazione; non è conflitto, ma amicizia.
Come risulta dal nome: via della cedevolezza.

Diceva lo stesso Jigoro Kano che il Judo è la costante ricerca del migliore impiego dell'energia, e non solo di quella fisica, in un clima di amicizia e mutua prosperità.
In altre parole, il vero judoka cerca di agire sempre meglio, quindi di vivere sempre meglio, per il bene suo e degli altri.
Egli tende continuamente verso un più equilibrato controllo dei suoi impulsi, della sua mente e dei suoi gesti; si studia di progredire insieme agli altri, in uno stretto rapporto di collaborazione; è animato da spirito di benevolenza e di generosità.
L'egoista, l'arrogante, il sopraffattore, l'insensibile, non può fare un buon Judo. Buona educazione, fiducia nel maestro e amore per l'arte:sono le tre qualità che si devono coltivare 'arte dentro di sé per praticare il Judo. Il che vuol dire rispetto per gli altri, umiltà e dedizione. In breve, civiltà. Perché il Judo è proprio questo: una scuola di civiltà.

Il judo continua a essere uno sconosciuto, affascinante sì, ma anche sospetto. E continua a esserlo nonostante la sua diffusione ormai più che ragguardevole. E’ convinzione abbastanza comune che si tratti essenzialmente di una tecnica di difesa personale e di uno strumento di autorassicurazione fisica e psicologica. In definitiva, di un’arma. Ma ciò che normalmente non si sa è che chi possiede quest’arma tende per lo più a non usarla come tale. E quanto meglio la conosce, tanto meno si sente portato a impiegarla. La cosa è logica, come vedremo subito, e dipende da questo: se è vero che il judo è un efficacissimo mezzo difensivo e offensivo, è altrettanto vero che non è solo questo.

Il judo è anche un’arma, ma il suo spirito va ben oltre un simile aspetto superficiale e grossolano.
Moltissimi sono convinti che il judo sia uno sport.
E’ vero: lo è. Ci sono le gare e i campionati a livello locale, regionale, nazionale, internazionale, mondiale e olimpionico. Ci sono coppe, federazioni, associazioni, medaglie, diplomi, eccetera; ci sono gli allenamenti, la ginnastica preparatoria, la "muscolazione", e via dicendo. Come si spiega, allora, che esistano esperti di considerevole livello che non hanno mai combattuto in gara o che comunque non hanno mai vinto un incontro?
Il fatto è che il judo è anche uno sport, ma non solo questo.
C’è infine chi guarda al judo come a un’arte. Giusto.
A un determinato livello il judoka può davvero creare, mediante l’impiego del proprio corpo, qualcosa di estremamente estetico e piacevole.
In un certo senso si tratta di un autentico linguaggio, paragonabile a quello della danza o a quello figurativo o persino a quello musicale e letterario.
Come l’arte, il judo richiede fantasia, creatività, sensibilità, personalità.

Sicuramente il judo è anche un’arte.
Ma è molto più di tutto questo. Il judo è una via. Parola che non si presta a un’agevole interpretazione nella nostra chiave culturale.
Forse si potrebbe dire che è un modo di essere.
Non ci si può avvicinare allo spirito del judo se non si vive in una certa maniera, interiormente ed esteriormente. E, viceversa, chi pratica il judo nel giusto spirito finisce più o meno consapevolmente col cambiare la propria vita, anzi il proprio stile di vita.
Voglio dire, sia pure in termini molto generici e approssimativi, che il judo restituisce l’uomo a sé il judo restituisce l’uomo a sé stesso, liberandolo da quelle scorie che una società mercificante e alienante ha depositato su di lui.
La realtà di questo fenomeno è facilmente verificabile per chi, come me, fruisce di un’esperienza derivante dal quotidiano contatto col bambino. Il bambino, specie il bambino piccolo, si comporta diversamente da noi: è più vero, non si nasconde dietro alcuna maschera, affronta con coraggio e fermezza i problemi della sua esistenza, va diritto al
suo scopo, si nutre dei contenuti essenziali della vita.
E anche sul piano puramente fisico egli mostra delle impostazioni e degli atteggiamenti che sono quelli più adatti all’impiego migliore del suo corpo.
Poi, da adulto, dovrà faticare molto per riconquistare quella posizione e quella dinamica del suo organismo che nei primi mesi di vita gli erano spontanee. Se vorrà riconquistarle, beninteso.
Dire che il judo restituisce l’uomo a se stesso significa dire che la pratica di quest’arte impone il recupero di certe qualità umane che si sono perdute negli stravolgimenti di una società disumana. Per esempio l’umiltà.
Occorre accostarsi al judo spogli di ogni presunzione, liberi da ogni sovrastruttura superflua, disposti a essere semplicemente quello che si è, aperti a un’esperienza del tutto nuova, pronti ad apprendere qualcosa che forse, sulle prime, può sembrare incomprensibile.
Sulla materassina i professori, i commendatori, i dirigenti, i capi, non esistono più. Ci sono soltanto uomini uniti da un comune sforzo: lo sforzo di diventare migliori.
E poi la sincerità. Non serve fingere, non serve. Per sembrare più bravi, non serve comportarsi in modo da meritare elogi, non serve dare l’impressione di fare più di un altro.
Bisogna fare, e basta. Fare quello che si può, il meglio che si può, con tutte le proprie risorse. Bisogna prima di tutto essere sinceri con se stessi, saper guardare dentro di sé, sapersi conoscere.
Non è facile, naturalmente, ma questa è la via. Ci si può riuscire se si riesce a riconquistare un’altra connotazione fondamentale dell’uomo: l’amore.
L’amore per gli altri uomini in primo luogo, e perciò il rifiuto di qualsiasi rivalità, di ogni rancore, del sospetto, della discriminazione, del disprezzo, dell’antipatia, dell’antagonismo, dell’invidia, dell’ira.
Il dojo è il luogo della serenità, dell’amicizia e della Mutua prosperità.

Inoltre ci vuole l’amore per l’arte.
Non si pratica il judo per essere più forti, per ambizione, per lucro o per ragioni di prestigio. Lo si pratica perché lo si ama.
Se non lo si ama, con umiltà e con sincerità, si potrà forse anche ottenere una buona tecnica, mai un buon judo.

Infine è necessaria la fiducia.
In se stessi, nel prossimo, e soprattutto nel maestro.
Il judo non si impara sui libri. Solo il maestro può indicare la via e il modo migliore di percorrerla. Non chi si fa chiamare maestro, ma chi lo è. E, se lo è, gli si deve dare tutta la fiducia.
Il dubbio, nei confronti del maestro, toglie ogni validità al rapporto con lui. Meglio allora cambiare e rivolgersi ad altri.

Fare judo vuol dire anche abbandonarsi, senza riserve o secondi fini. Non si chiede né si vuole un rapporto di sudditanza o di sottomissione.
Il maestro non è un’autorità istituzionale, non è un colonnello, non è un duce. E’ un uomo che merita fiducia e al quale si deve dare fiducia. Se non la merita non è un maestro.
Per la nostra mentalità mercantile il judo è senza dubbio un fenomeno sconcertante: la sua pratica riporta in primo piano certe qualità umane che dal nostro costume sono state accantonate, o addirittura cancellate, e ne respinge altre che vanno per la maggiore, come la propensione al successo, al potere, all’avidità, alla sopraffazione, allo sfruttamento.
E’ una via che non conduce verso gli obiettivi celebrati dalla cultura dominante, va solo verso un miglioramento dell’uomo e della condizione umana.
E’ un’educazione all’amore e alla libertà.

Il judo si fonda sul rispetto per l’altro, sulla generosità e sulla benevolenza .
Doti anche queste che nessuno può pretendere di inculcare con regole e precetti, ma che semplicemente si vivono.
Senza l’amicizia non c’è judo, senza lo sforzo comune per migliorare non c’è judo.
Si potrebbe dire che il judo è essenzialmente libertà, una libertà vera, libertà concreta e spirituale insieme, di tutti per il bene di tutti.
Una grande spinta evolutiva per qualsiasi bambino.
Penso che potrebbe esserlo anche per l’adulto, se l’adulto, riuscisse a eliminare campionismi, fanatismi ed egocentrismi di ogni specie.

Marcello Bernardi

Pediatra, Pedagogista

Docente di Puericultura all'Università di Pavia, di Auxologia all'Università di Brescia

 

scritto il 21 set 2016
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