Donna e judo

Armonia, eleganza e determinazione

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La  donna,  eterna compagna dell’uomo, è stata  sempre,  lungo il corso della  storia, oggetto  di  disattenzione da parte dell’uomo in quanto “altra”, diversa.  Tralasciando i grandi personaggi femminili che hanno fatto storia, la donna è sempre  stata  discriminata, tenuta  ai margini, nonostante la sua  presenza e il suo ruolo  fosse più che concreto.

La realtà femminile fino ad un recente passato, caratterizzato da una evidente misoginia, veniva rappresentata da una triade di modelli dalla valenza simbolica  notevole: Eva, Maria e la Maddalena. La prima, Eva, carica  di colpe e di peccati rappresenta l’aspetto più deleterio della natura femminile; Maria, invece, l’estremo opposto: la massima espressione della virtù femminile, tanto  ideale quanto irraggiungibile per la sua perfezione. In mezzo a queste due  figure troviamo la Maddalena, che potremmo definire la  rappresentazione  di una  “terza via”, più umana. Maddalena è sì peccatrice, ma ha  la  capacità di ravvedersi, di pentirsi. La  sua presa di coscienza rappresenta  la possibile, anche se ardua, redenzione. Fino a non molto tempo fa si era convinti che se  ad ognuno,  nascendo, fosse  stata  data la possibilità di mondarsi dalla macchia del peccato originale, la donna  doveva  farlo  due  volte: la prima  perché   peccatrice, come tutti, la seconda perché donna. 

Per questa ragione in passato sia  i moralisti che i filosofi trovarono conforto alle loro  teorie nei testi aristotelici, nei  quali le  donne  non  facevano una  bella figura, anzi, erano  definite  uomini mancati, perciò imperfetti sia dal punto di vista fisico che  intellettuale. Le  donne erano prive di razionalità, ma non solo, quella che  era  ritenuta più grave era  la loro passionalità. Qualcuno  come Egidio Romano, fortemente legato al sillogismo aristotelico, affermò  che se:«l’anima segue la costituzione del corpo, le donne hanno un  corpo molle e instabile, le donne sono instabili e  nella  volontà e nel desiderio»[1]. Quindi se la donna  mostra di  avere un’indole irrequieta era necessario, secondo i moralizzatori del tempo, che  venisse  custodita, preservata e protetta e che avesse atteggiamenti timorosi nei rapporti con gli altri. Coloro che non erano protette dalle solide  mura domestiche o dei monasteri e che erano  costrette, comunque, a vivere nel sociale, dovevano  mantenere un contegno riservato, vergognoso e sottomesso in pubblico.

La normazione dei comportamenti femminili, attinente al come la donna doveva rappresentarsi e  cosa doveva rappresentare, nella nostra cultura  si è imposta in modo  preciso e minuzioso, sempre  e comunque da parte dell’uomo. Anche il modo di vestirsi e truccarsi, di apparire in pubblico, di atteggiarsi era regolato con  la stessa dovizia di particolari.  Questo perché la donna che vestiva e si truccava con raffinatezza metteva in risalto il proprio corpo, la sua femminilità, la sua fisicità, che era  il contrario di  quanto  veniva imposto dai moralisti o  dai  religiosi del tempo. In particolare il trucco, che  era ritenuto  un   vezzo luciferino, perché cercava di fermare l’ordine naturale  divino, che si  concretizzava  nel decadimento fisico. La donna che  curava il suo aspetto, la sua immagine  da esibire in pubblico era ormai da considerare un’anima persa, posseduta dal  demonio.

Perfino  i gesti, secondo il pensiero corrente dell’epoca, dovevano essere controllati. Lo sguardo, camminando dalla casa alla chiesa, doveva  rivolgersi verso il suolo onde evitare di  incrociare sguardi irriguardevoli di eventuali passanti. La donna  doveva mantenersi  possibilmente taciturna, parlare  solo  quando era ritenuto  necessario, alla pari delle  religiose che  infrangevano il loro  voto di silenzio solo  in particolari circostanze.

Dal punto di vista  culturale la donna  non doveva  ambire ad alcuna  conoscenza: «non  deve imparare né  a leggere né  a scrivere, perché dal leggere e dallo scrivere delle donne molti  mali sono  venuti»[2]. La donna perciò dal XII sec. alla  fine del XV sec.  sembra essere un osservato speciale, deve muoversi in ambiti ristretti  con  molte limitazioni seguendo canoni comportamentali imposte da figure arcigne di  chierici, moralisti, filosofi, teologi, comunque di uomini, che si erano   fatti carico della salvezza della donna, arrogandosi il diritto  di guidarla nelle sue  scelte di vita. A distanza  di qualche secolo molte cose  sono cambiate, la parentesi del femminismo ha contribuito, sicuramente a  liberare la donna da  quelle ingiuste catene che la  opprimevano in uno stato di evidente quanto assurda inferiorità. 

 La liberazione della donna, la sua emancipazione  culturale, economica, sociale oggi erroneamente non fa che porla in competizione con l’uomo, e così facendo  rischia di rinunciare  a una parte della sua  femminilità, preziosa tanto per sé quanto per l’uomo. 

L’uguaglianza  nella diversità resta ancora, per certi versi, una conquista da affermare quotidianamente.

E lo sport come ha considerato la donna?

Anche nello sport come  nella società la donna ha dovuto attendere  che i tempi maturassero, che  ci si scrollasse di dosso  un fardello enorme di pregiudizi, che  affondavano le radici in un humus culturale  che viene da lontano. Oggi però  nonostante sia in Occidente che in Oriente appaia  alquanto normale osservare come la  donna, almeno nello sport , sia  giunta ad affermarsi  per le sue capacità, in alcuni paesi con forte connotazione religiosa essa viene ancora relegata ad un ruolo sociale marginale.

Il Judo del prof. Kano,  fin dai suoi  esordi, non ha affatto discriminato la partecipazione della donna, infatti al Kodokan  fin dall’inizio del ‘900  furono istituiti   sezioni   femminili di Judo.

Certo può sembrare strano a qualcuno che le  ragazze oggi  possano  gareggiare in un torneo di Judo  sia a livello locale  che a livello olimpico, ma fino a qualche anno  fa era tanto strano quanto impensabile vedere delle donne  guidare dei camion, o dei bus cittadini, come era del tutto improponibile immaginare in tribunale un giudice donna, o pilota d’aereo, o ancora  carabiniere.

Le donne hanno mostrato, e continuano a farlo, che  possono svolgere  gli stessi ruoli maschili alla pari e in  certi ambiti anche meglio degli uomini.

Il judo per le ragazze non deve suscitare  alcuna perplessità nei genitori visto che la natura stessa dell’insegnamento judoistico è caratterizzato dalla sua adattabilità, sia all’età  che al genere di chi lo pratica. La donna  che pratica Judo  non si  volgarizza, tutt’altro,  mostra  al meglio il concetto di armonia nei movimenti e nella eleganza estetica. Nel confronto agonistico invece cerca di  esprimere al meglio la sua determinazione e decisione  nel  cogliere l’opportunità offerta dall’avversaria.

Educare i giovani a confrontarsi con l’imprevisto, con il rischio, con l’ignoto, con il sacrificio, con la fatica  fisica e mentale,  non può che renderli migliori. Diventare  adulti, dopo aver attraversato  quel  ponte traballante sospeso sul  vuoto che è l’adolescenza, continua ad essere la più entusiasmante avventura che  ci tocca vivere, e in questo  non  ci debono essere limiti di genere.

Infine se,  come già detto, nella società l’uguaglianza nella diversità  resta ancora un traguardo da raggiungere, nella pratica del Judo da  tempo si è già  concretizzata: ogni sera  bambini e bambine si  allenano insieme  senza  alcuna difficoltà, imparando a scoprire insieme i propri limiti e le proprie difficoltà, affinché ognuno possa crescere nel rispetto dell’altro.

In fondo  questo è il progetto educativo del Judo del prof. Kano, ma anche il nostro.

Prof. Giuseppe Tribuzio 

Sociologo, Università degli Studi di Bari, Dip. Scienze della formazione, psicologia e comunicazione.

 


[1] Egidio Romano, De regimine principum, Libri III, apud Bartholomaeum Zanettum, Romae 1607.

[2] Filippo da Novara, Les quatres  ages de l’homme, ed. M. De Feville, Paris 1888, p.16.

scritto il 01 set 2016
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