Gli shime waza

Effetti, etica, morale

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Dopo aver parlato di cuore e judo proviamo ad affrontare un altro aspetto di questa meravigliosa disciplina; un aspetto apparentemente oscuro, ma che in realtà, per paradosso, racchiude in sé l’essenza dell’etica e della morale del judo: gli strangolamenti (shime waza).

Questa piccola nota intende rappresentare quali siano gli effetti degli strangolamenti sotto il piano vascolare, non senza esaminare quali siano i limiti etici alla loro applicazione.

E’ bene da subito precisare che le tecniche di strangolamento compaiono nel bagaglio del judoka non prima della fase adolescenziale, cioè solo quando l’inziale attività psicomotoria del bambino ed il suo avviamento al judo abbiano abbondantemente esaurito il loro percorso e siano virate verso un impegno di natura agonistica che preveda la comprensione ed il controllo della loro esecuzione.

Gli strangolamenti derivano da un retaggio del ju jitsu, padre del judo, che affondava le sue ragioni nella necessità di acquisire abilità che potessero essere utilizzate in periodo di guerra per neutralizzare l’avversario in maniera completa e talvolta definitiva.

Attraverso la rielaborazione di quelle tecniche il judo ha saputo trasformarne il significato e le finalità, facendone strumento per entrare in un contatto profondo con l’avversario - tante volte con il compagno di allenamento - per innestare un rapporto di fiducia completa, per toccare il limite senza mai valicarlo: “Sono nelle tue mani, mi hai battuto, so che non andrai oltre”.

Volendo fare un paragone, è come se, in una sfida tra spade, il duellante più bravo disarmasse il suo contendente e arrivasse poi solo a simboleggiare il colpo ferale, senza mai sferrarlo, all’unico fine di sentire la resa dell’avversario. Un po’ come catturare un pesce per poi rilasciarlo nuovamente a mare.

Il judoka, affinando gradualmente l’esecuzione delle tecniche di strangolamento, impara a padroneggiarle, a controllarne gli effetti, ad utilizzarle nel solco insormontabile della disciplina severa che acquisisce dal primo giorno in cui si mette piede sul tatami, che prevede il rispetto della dignità, dell’incolumità e della vita dell’avversario.  

Ma in cosa consistono gli strangolamenti nel judo? Quali sono gli effetti?

Per prima cosa va fugata l’idea dello strangolamento come concepita dall’immaginario collettivo.

Nel judo si studia un complesso sistema di passaggi e di incroci di braccia e di gambe che utilizzano prevalentemente i baveri del kimono (judogi) come strumento di compressione delle vie respiratorie e/o delle vie arteriose e/o venose del collo che, rispettivamente, consentono la respirazione e portano sangue al cervello.

Per capire bene cosa succede quando si usa uno strangolamento si deve fare riferimento alle strutture anatomiche che passano nel collo.

Protetti dai muscoli passano arterie e vene che regolano la circolazione di sangue al cervello. Parte di queste vie sono poste nella porzione anteriore e laterale del collo, così che, comprimendo i muscoli, vengono anch’esse sottoposte ad una compressione che riduce la quantità di sangue che arriva al cervello. La compressione dei vasi determina inoltre una variazione del rapporto tra ossigeno e anidride carbonica che costringe chi subisce lo strangolamento alla resa (si batte a terra o addosso all’avversario).

La zona del collo che viene compressa è anche sede del passaggio di strutture nervose che regolano la pressione, in particolare le strutture del nervo vago e le cellule poste in una piccola parte della parete della arteria carotidea, dette seno carotideo, che funzionano come fini regolatori per assicurare una pressione sanguigna costante alle strutture cerebrali.

Attraverso la compressione sul collo, questi meccanismi di controllo vengono temporaneamente interrotti e quindi si corre il rischio di svenire. Il controllo diventa pertanto fondamentale affinchè una volta rimossa la causa, gli equilibri vengano ripristinati in pochi secondi senza alcun danno.

Chiaramente chi subisce lo strangolamento è istintivamente portato a resistere, proteggendo il collo, indurendo i muscoli, tentando di far fronte a quella fame di aria che subentra quando vengono compresse anche le vie respiratorie che fanno passare l’aria.

Ma se non posso respirare allora cosa devo fare?

Quando si subisce uno strangolamento, anzitutto ci si può subito arrendere, dichiarare la condizione non sostenibile, smettere di combattere, non si rischia, ma si perde. La resa immediata tuttavia è una condizione che non appartiene al judoka, allo sportivo in genere.

Oppure si può resistere ad oltranza, senza gran costrutto, contro l’evidenza della imminente sconfitta e di solito, contando magari sul prezioso trascorrere dei secondi, quando si è in vantaggio.

Al di là della strategia di gara, è opportuno migliorare la propria capillarizzazione, ne abbiamo già parlato nell’articolo che trattava “cuore e judo”, in modo da resistere meglio alle condizioni di carenza di ossigeno.

Si possono poj fortificare i muscoli del collo in modo che la forza che il nostro avversario deve impiegare per essere efficace sia molto maggiore.

Oppure si può apparentemente cedere, dando la sensazione di stare per subire il colpo finale ma intanto si guadagna il minimo di spazio che consente una fuga dallo strangolamento e l’inizio di un contrattacco. 

D’altro canto simili considerazioni si devono fare anche quando si porta uno strangolamento contro una difesa ben munita del nostro avversario: possiamo fintare di mirare la nostra azione da un lato per ottenere un vantaggio dal lato opposto, talvolta una testa di ponte, un solo dito sul bavero può essere l’inizio di un grande attacco che porterà risultati insperati.

Proprio come nella vita dove talvolta piccole cose significano tanto, un piccolo risultato positivo può diventare un grande successo se ben gestito e controllato. E quando avremo imparato a fare tutto ciò accetteremo quanto accadrà, a prescindere dal nostro impegno, con la serenità di chi ci ha provato nel migliore dei modi, con la sportività che non dobbiamo mai dimenticare.

Viste così queste tecniche non sono altro che tecniche, non sono la parte oscura del judo, sono solo un altro modo di come questa disciplina, mentre ci fa divertire, ci insegna anche ad affrontare la vita nel migliore dei modi, con impegno e una dose di sana sofferenza, con umiltà ma anche con indomita dignità.

Dr. Andrea Silvestroni

Judoka, Angiologo

scritto il 21 gen 2017
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