Se vi chiedessero di trovare le parole che esprimono l’idea di violenza probabilmente fareste riferimento a qualcosa che afferisce alla sopraffazione, alla costrizione, alla coartata mancanza di libertà, all’abuso dei ruoli.
Se vi chiedessero invece di trovarne un’altra, una soltanto, rappresentativa del confronto rispettoso tra le persone, dell’amicizia, della buona etica, cosa rispondereste? Educazione? Religione? Cos’altro?
Ebbene, la risposta laica a questo secondo quesito si chiama JUDO.
Qualcuno ha tradotto questo termine come “il metodo gentile”, altri, più vicini al suo etimo giapponese, l’hanno definito “la via della cedevolezza, dell'adattabilità”.
E’ una disciplina di combattimento corpo a corpo, a contatto continuo, che richiama il controllo delle forze dell’avversario al fine di replicarvi seguendo la linea della direzione dell’attacco. Una valutazione delle alternative più vantaggiose, una difesa.
Simbolicamente, indica il criterio con il quale accogliere le dinamiche di vita, che porta le persone ad inquadrare i problemi quotidiani, a determinarne i confini e a ricavare le soluzioni più favorevoli da adottare nel giusto tempo e secondo le migliori opportunità per profondere energie e raggiungere i propri obiettivi.
A questo punto, un genitore potrebbe obbiettare: “Queste sono chiacchiere, è filosofia; il judo è un combattimento spietato fatto di calci, pugni, grida forsennate…di certo non porterò mai mio figlio in un luogo dove si coltiva la cultura della cattiveria!”
Il judo, in realtà, non è nulla di tutto questo.
Non si rompono mattoni, si rompono le distanze, le timidezze, le diversità.
Attraverso le prese, il bambino accoglie il compagno a sé, non lo allontana. Gli parla e lo ascolta attraverso il corpo, elaborando da vicino tutte le informazioni non verbali che provengono da quell’interazione così intima. E’ un invito a conoscersi, a comunicare e ad affrontare da dentro le difficoltà, senza mai rifuggirle.
Un passo verso, non un passo da.
Questo allenamento, motorio ed emozionale, apre il cuore dei bambini, infondendo in loro il senso di fiducia e di protezione reciproca. Lo stesso sentimento che, da grandi, maturerà in gratitudine per i compagni, per essere stati origine e motivo di miglioramento sportivo e umano. Sul punto, basti sapere che il termine comunemente usato per indicare “colui che subisce” una tecnica di judo, traduce piuttosto “colui che riceve”, evocando così lo stato d’animo e la riconoscenza che sono propri della buona ospitalità e che sono dovuti a chi ha contribuito a renderti felice della sua presenza e ad arricchirti con il suo sapere e con le sue storie.
Si badi, nessuno nega che il bambino impari gradualmente delle tecniche di autodifesa, va chiarito tuttavia che il piccolo sa da subito che l’applicazione delle stesse è condizionata al rigoroso rispetto delle regole di autocontrollo che assorbe in palestra durante la pratica.
La ritualizzazione del combattimento permette oltretutto di canalizzare l’aggressività, non di amplificarla, ottenendo una riduzione degli atteggiamenti ostili, grazie ad un incremento dell’equilibrio psicologico, dell’autostima e della sicurezza in se stessi.
Ma allora, ove si abbia contezza dell’idea di violenza, ove il judo indichi metodo educativo gentile, ove esso apra le porte al dialogo, ove si faccia strumento di una pratica strettamente difensiva e, soprattutto, ove il bambino arrivi a riporre nell’ ”altro” la fonte del proprio miglioramento, ha ancora senso, oggi, accomunare il judo al concetto di violenza?
Ha senso nella misura in cui il judo, impetuosamente, si radica nella coscienza delle persone.
Ha senso nella misura in cui, prepotentemente, ripudia il sopruso, ispirando inclusione, rispetto, uguaglianza, pur considerando le individualità e le esperienze.
Ha senso nella misura in cui, come solco profondo, indica ai bambini la via per diventare buoni uomini.
Fabio Della Moglie
Resilienza e durezza mentale
Analisi e linee guida
Forma, etichetta e meditazione