Nel mondo variegato e contraddittorio dei giovani ci sono sempre stati momenti di confronto-scontro, che servivano a conoscersi meglio e socializzare con gli altri inizialmente estranei. Ma da qualche tempo si è diffuso un fenomeno, che rivela nuove situazioni di disagio, a volte anche gravi, che viene identificato con il termine di bullismo.
Questo neologismo, apparso di recente nei dizionari della lingua italiana e nel linguaggio comune, identifica un comportamento «prepotente volto a far del male ad un’altra persona».
Se il bullismo è l’azione che viene messa in atto da un soggetto che viene identificato con il termine “bullo” vediamo come quest’ultimo, nel dizionario Gabrielli del 1989, viene definito come «giovane teppista, gradasso, smargiasso, prepotente, spaccone», ma anche «giovane ardito, spigliato, scansonato». Nello Zingarelli del 1993, il bullo è definito come un «prepotente, bellimbusto, che si mette in mostra con spavalderia»; infine nel Devoto-Oli ed. 1993, si legge: «teppista, sfrondato» e in senso meno cattivo «bellimbusto, che si rende ridicolo per la vistosità e l’eccentricità dell’abbigliamento».
Il significato che si attribuisce, invece, al termine bullismo ha una connotazione del tutto diversa perché bullismo deriva dall’inglese bully, che indica una persona che usa la propria forza o potere per intimorire o danneggiare una persona, generalmente più debole. In questa definizione emerge non un atteggiamento da spaccone, ma indica una precisa relazione tra due soggetti: un prepotente e una vittima.
L’inglese bullying - e quindi il corrispettivo italiano bullismo - nella letteratura internazionale è usato per definire un fenomeno diffusissimo, che si concretizza in forma di oppressione, esercitata sulla giovane vittima da un coetaneo prepotente e prevaricatore, che con il suo comportamento genera nella vittima profonda sofferenza e grave svalutazione della propria identità.
Affinché si possa identificare con precisione questa relazione alterata, la comunità scientifica ha individuato tre condizioni fondamentali:
a) l’esistenza di uno squilibrio nel rapporto di forza tra due o più persone;
b) l’intenzione di arrecare un danno alla persona più debole;
c) il perdurare nel tempo di questa relazione squilibrata.
A prima vista, il bullismo potrebbe sembrare, una evoluzione delle ben note goliardate universitarie di una volta, con una differenza però, che mentre queste erano tese al divertimento fine a se stesso, il bullismo mira a fare del male e basta. È stato merito dello psicologo norvegese Dan Olwens, se il bullismo è diventato un fenomeno noto all’opinione pubblica. Negli anni ’70 Olwens, con la sua indagine, suscitò molto scalpore per la nuova immagine che veniva delineandosi dell’età infantile: non più considerata l’età dell’innocenza, ma palestra per interazioni violente fra pari: primi sintomi di comportamenti sempre più antisociali.
Secondo lo studio portato avanti da Olwens il fenomeno coinvolgeva circa il 15% della popolazione scolastica delle scuole elementari e medie norvegesi. In Inghilterra uno studio simile, portato avanti dagli psicologi Whitney e Smith, rilevò che il 27% degli intervistati (7.000 studenti) era stato oggetto di prepotenze da parte dei compagni di classe. Anche in altre nazioni come la Svezia, la Finlandia, gli Stati Uniti, il Canada, l’Irlanda, la Spagna, l’Australia esisteva lo stesso problema, con livelli di frequenza molto simili.
Il fenomeno, comunque, non riguarda solo i paesi occidentali, ma è presente anche in Giappone con conseguenze a volte drammatiche. L’aumento considerevole del numero dei suicidi di studenti al di sotto dei dieci anni, che vengono travolti dalla disperazione a causa dello “ijime”, che corrisponde al nostro bullismo, ne è un sintomo inequivocabile.
La definizione di D. Olwens è molto chiara: «uno studente è oggetto di azioni di bullismo, ovvero è prevaricato o vittimizzato quando viene sposto, ripetutamente nel corso del tempo, alle azioni offensive messe in atto da parte di uno o più compagni»[1]. Dello stesso avviso sono Sharp e Smith secondo i quali il bullismo è:«un’azione che mira deliberatamente a fare male o a danneggiare; spesso è persistente ed è difficile difendersi per coloro che ne sono vittime»[2]. Anche da noi in Italia, qualche anno più tardi, si giunse alla prima delineazione del fenomeno, così come si presentava nelle scuole.
In Italia, l’indagine realizzata da Ada Fonzi,[3] prese in considerazione sette macro aree geografiche dal nord al sud del paese e rivelò in modo sorprendente un disagio che insegnanti, genitori e alunni percepivano, ma che non si riusciva ancora ad individuare. I livelli riscontrati dalla ricerca denunciavano una presenza del fenomeno addirittura più elevata che in altri paesi, come la Norvegia, l’Inghilterra, la Spagna, il Giappone, il Canada.
La scuola, forse, con il suo sguardo strabico, non solo fa poco per rendere la vita scolastica piacevole e serena, ma indirettamente alimenta con le sue “distrazioni” i comportamenti prevaricatori dei ragazzi più “esuberanti”.
Sembra alquanto strano, come emerge da numerose indagini avviate all’interno della scuola, che gli unici a non accorgersi delle continue pressioni che subiscono gran parte degli alunni siano proprio gli insegnanti. Cosa vuol dire ciò? Vuol dire che i ragazzi bulli sono abili a mettere in atto le loro violenze nei luoghi dove non c’è la vigilanza di un adulto: bagni, corridoi, cortile scolastico, fuori della scuola.
Ma basta la vigilanza a prevenire comportamenti devianti? O non è il caso di pensare ad un’educazione al rispetto, al civismo, al senso del limite e di prevedere delle sanzioni severe che facciano sì riflettere i colpevoli su quanto compiuto, ma che serva anche da monito per gli altri potenziali bulli?
Di parere diverso sembra essere Francesco Alberoni, secondo il quale il bullismo rappresenta una forma primordiale di potere che bisogna tener presente nel momento in cui ci accingiamo a combattere efficacemente il fenomeno. Il bullo è il capo di un gruppetto di ragazzi che si sentono come dei guerrieri in una società di imbelli. Pertanto sembra alquanto inutile ricorrere all’ammonizione o alla sanzione, perché finisce che il bullo se ne fa un vanto, alimentando così il suo “prestigio”.
Un provvedimento efficace – per Alberoni – potrebbe essere quello di togliergli il pubblico, quindi espellerlo dalla scuola, in modo tale da togliergli la possibilità di poter agire sia sulle vittime che su coloro che lo vedono come leader. Ma agendo in questo modo si corre il rischio di utilizzare una medicina più pericolosa della malattia, perché avere ragazzi nullafacenti per strada è estremamente dannoso per loro e per il contesto sociale. Bene hanno fatto alcuni magistrati che come pena hanno costretto i bulli a prestare assistenza ai disabili, dando loro modo di apprendere come la società civile non permette ai prepotenti di opprimere i più deboli, ma insegna loro ad aiutarli a superare le proprie difficoltà. Se questa è la risposta successiva all’evento deviante, secondo Alberoni, la via maestra da seguire per prevenire, per frenare se non eliminare del tutto il bullismo, potrebbe essere quella di favorire all’interno della scuola la competizione di squadra tra i ragazzi. «Per troppo tempo – afferma Alberoni – nelle nostre scuole ha prevalso una mentalità […] che considera la competizione un male. Si è pensato che la violenza scompaia livellando tutti. Ma non è così. La violenza va sublimata creando squadre in competizione. I nostri ragazzi dovrebbero andare a scuola tutto il giorno e, oltre a star seduti sui banchi, fare lavori, sport, arte, musica, teatro. Ma all’interno di gruppi che si affrontano, che competono. Così in ciascuna squadra i leader emergono in base al loro valore, e tutti sono orgogliosi di partecipare perché si sentono parte di un noi, in cui trovano una identità, ed esprimono se stessi».[4]
Le vittime dei bulli sono sempre ragazzi che si mostrano introversi, timidi, poco sicuri di sé, incapaci di difendersi ribellandosi ai soprusi, rispettosi delle regole perché temono le punizioni. Ma allora se conosciamo le vittime potenziali, perché non si sente la necessità che qualcuno metta subito in allerta questi alunni di fronte agli eventuali pericoli, fornendo loro strumenti idonei per poter rispondere efficacemente ai primi tentativi di vessazione da parte del bullo. Non basta suggerire loro di rivolgersi agli insegnanti o ad un adulti in caso di aggressione o di vessazioni varie. In questo modo non li si aiuta a far crescere l’autostima e la sicurezza. Tutt’altro; si creano i presupposti di una dipendenza continua da un’altra persona, che può essere ancora oggetto di scherno e di derisione da parte del gruppo dominante.
La proposta del judo educativo all’interno della scuola si pone invece come mezzo di prevenzione di quegli episodi incresciosi che destabilizzano i rapporti tra coetanei in un momento molto delicato della loro crescita. In questo modo si conferisce ai ragazzi più deboli la possibilità di acquisire più sicurezza nelle relazioni interpersonali e ai più intraprendenti di controllare la propria esuberanza.
Il Judo non è, come molti pensano, solo una disciplina da combattimento; è invece un metodo educativo che allena la mente e il corpo dei giovani a fronteggiare situazioni nuove e impreviste.
Vedere il bullo o l’aspirante tale, proiettato sulla materassina di allenamento da un abile istruttore e, in seguito, da altri compagni di classe, tende a decostruire la sua immagine di onnipotenza, ponendolo alla pari degli altri, con i quali deve confrontarsi nel rispetto delle regole del gioco. La pratica del Judo è un esempio, molto efficace, di come sia possibile affrontare un problema educativo specifico non solo con teorie e bei proponimenti, ma attraverso il coinvolgimento pratico dei giovani che così imparano a conoscersi e ad apprezzarsi nelle loro diversità.
Certo, come suggerisce Alberoni, qualsiasi altro sport potrebbe andar bene, ma gli altri non hanno quella specificità che solo il Judo possiede: cioè quella di porre l’individuo di fronte alla sue insicurezze alle sue paure, offrendogli nello stesso tempo una via di uscita.
Un altro metodo alquanto discutibile per la sua efficacia pratica, perché teoricamente potrebbe andar bene, è quello del training all’assertività, che mira ad insegnare agli alunni che subiscono prepotenze come resistere a comportamenti di questo tipo. Attraverso questa metodologia Sharp e Smith[5] pensano di incrementare l’assertività dell’alunno potenzialmente o già vittima. In pratica si tratta di formare un gruppo di una decina di alunni e a cadenza settimanale insegnare loro a come diventare assertivi, come resistere al raggiro, come rispondere agli insulti, come accrescere l’autostima, come restare calmi in situazioni stressanti.[6]
Perché questo metodo è discutibile? Per il semplice fatto che sembra più un corso per adulti insicuri e problematici. Come si fa, in pratica, ad insegnare ad un bambino introverso e insicuro come restare calmi di fronte a una situazione rischiosa? Infatti anche gli autori non essendo sicuri di quanto proposto affermano che risultati accettabili si possono raggiungere associando altre strategie.
Il judo risolve il problema alla radice, pone il ragazzo insieme al bullo, lo fa interagire, e, allenandosi al combattimento, affronta il rischio vero, non con esercizi teorici lontani dalla realtà.
Giuseppe Tribuzio - Sociologo dell’Educazione
[1] Cfr. D. Olwens, Bullismo a scuola. Ragazzi oppressi, ragazzi che opprimono, Giunti, Firenze 1996.
In questo volume l’autore riprende ed espone i risultati di ricerche condotte in un arco di tempo di 25 anni. Appaiono statistiche sulla diffusione del fenomeno nei Paesi scandinavi e la sua articolazione in funzione dell’età e del genere sessuale. Un motivo di interesse del volume è la descrizione dei programmi di intervento per prevenire e combattere il bullismo.
[2] Cfr. S. Sharp, P.K. Smith, Bulli e prepotenti nella scuola. Prevaricazione e tecniche educative, Centro studi Erickson, Trento 1996. Il libro presenta una vera e propria guida a tecniche e strategie educative da utilizzare per contrastar il fenomeno nelle scuole ed è rivolto prevalentemente ad insegnanti e operatori della scuola.
[3] A. Fonzi, (a cura di), Il bullismo in Italia, Giunti, Firenze 1997. Il volume raccoglie la prima e più importante ricerca fìnora condotta in Italia, al fine di stimare l’incidenza del bullismo nelle scuole elementari e medie. Della stessa autrice si veda anche, Il gioco crudele, Giunti, Firenze 1999, nel quale compaiono una serie di interessanti ricerche il cui scopo è quello di ampliare la conoscenza dei correlati psicologici del bullismo.
[4] Cfr. F. Alberoni, Il bullismo si elimina con la scuola competitiva, in “Corriere della Sera” del 4 dicembre 2006, p.1.
[5] Cfr. S. Sharp, P. Smith, Bulli e prepotenti a scuola, Erikson, Trento 1985.
[6] F. Marini, C. Mameli, Il bullismo nelle scuole, Carocci, Roma 2004, p.94.
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