Il judo e la paura

Rapporto, elaborazione e gestione emotiva

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Diversi autori nel tempo hanno trattato la paura da un punto di vista filosofico, da un punto di vista psicologico o da un punto di vista neurofisiologico. Tante le teorie, tante le evidenze scientifiche che si presterebbero ad essere richiamate. In questa breve esposizione desidero tuttavia allontanarmi da un rigido approccio didattico ed avvicinarmi alla paura con quella semplicità discorsiva che forse solo noi judoka possiamo “toccare con mano”, perché parte di una nostra quotidiana esperienza.

È probabile che alcuni di voi, leggendo il titolo, abbiano pensato: “la paura nel judo no. Nel judo, non c’è paura. Esiste la paura di morire, c’è la paura nella malattia, c’è la paura nella violenza, nella guerra, non nel judo…”. Altri potrebbero aver pensato: “la paura c’è, eccome, ma con il tempo poi …passa”; altri ancora: “mi hanno sempre detto che non devo aver paura se faccio judo …”

Ebbene, la paura c’è anche nel judo!

Che cosa è la paura, quanto si conosce di questa emozione, quanto ci si interroga sulla paura nel judo? Quanto ci si allena alla paura nel judo?

Si potrebbe pensare alla paura come ad un’emozione universale perché presente in ogni essere umano di qualsiasi luogo e cultura. Un’emozione tanto sgradevole quanto estremamente soggettiva, privata, intima.

Con il pensiero e con l’esperienza che avverrà nel tempo ognuno darà alla paura un’importanza, una forma, un colore differente. Non tutti proviamo paura nelle medesime situazioni, non tutti abbiamo paura delle medesime cose, non tutti abbiamo la stessa intensità di percezione della paura e non tutti reagiamo in egual modo alla paura.

Non tutti i judoka provano e percepiscono la stessa paura ma, tutti, tutti la provano!

La paura, insieme ad altre emozioni, è presente nell’uomo sin dal momento in cui nasce, solo che l’uomo appena venuto al mondo non è ancora in grado di nominarla o di classificarla come tale.

Non si può non provare paura, non si può essere “eroi” nei confronti della paura.

Come la gioia, la tristezza, la rabbia ed altre emozioni ancora, anche la paura è parte del nostro essere umani e svolge una funzione adattiva, permettendo dunque di rapportarsi e di interagire con l’ambiente, di conoscersi, di conoscere, di esprimersi.

L’emozione svolge una funzione di sopravvivenza in tutte quelle situazioni che la nostra mente percepisce come un pericolo.

Nel judo, la mente può leggere la sfida, l’incontro, la richiesta di un risultato immediato come un pericolo. La mente può percepire l’avversario come un pericolo. La mente può percepire la probabile sconfitta come un pericolo da evitare.

Sono contento che mio figlio faccia judo così non ha più paura degli altri”. Il judo non toglie la paura, perché essa è un’emozione che esiste e va accolta al pari delle altre e perché, come le altre, se presente nella giusta dimensione, può aiutarci. Il judo può insegnare a risignificarla in un dato contesto, conferendole differente valore a seconda della situazione.

Il piccolo judoka di oggi, l’adolescente o l’adulto di domani non possono non sperimentare la paura. Possono però imparare a riconoscerla (cosa non semplice e scontata), a gestirla, a farne buon uso in certi momenti ed in altri semplicemente ad accoglierla per poi passare oltre. È possibile dar loro strumenti per allenare la mente “a guardarla dall’alto” (tecniche di metacognizione) e canalizzarla in nuova energia, ma, non si può chiedere ad un bambino o adulto che sia di non aver paura!

 

Salire sul tatami di gara attiva processi, riflessi e reazioni psicofisiologiche inevitabili anche nella mente di un judoka che è prima di tutto una persona. Processi che allertano la sua mente portando in superficie vissuti personali fuori da un controllo conscio.

Quanti i judoka che convivono con mani fredde, con tremori, con sudorazione eccessiva o scarsa o fredda, con mancanza di salivazione, con eccessiva diuresi o evacuazione, con vomito, con parlantina irrefrenabile, con allegria stravagante, con epistassi, con nervosismo, insonnia, fame eccessiva o assente, emicranie, pruriti, battito alterato, apparente e strana calma….

La paura del judoka può tradursi nella sua mente, in modo non consapevole, in una paura dell’abbandono (se perdo il Maestro si allontana da me),  paura del rifiuto (se non ce la faccio non mi seguirà), paura del fallimento (se non batto l’avversario sono un fallito, o, se perdo non centro l’obiettivo)paura di restare da solo (se perdo rimango solo)paura di essere diverso (cosa non ho io rispetto ad altri), paura di non essere adeguato (io non sono capace di …), ma anche paura di farcela (se vinco poi cosa succederà dopo)  e molte altre ancora.

Paure queste che si nascondono in mezzo a sensazioni e a pensieri che il tempo ha chiuso in intimi “cassetti” dimenticati ma che, a nostra insaputa, la mente nell’attimo in cui si ricorda e avverte una sensazione simile a quella del pericolo va ad aprire. Tutto in quell’istante cambia, l’agire perde di efficacia, il nostro comportamento cambia.

La mente non dimentica un’emozione vissuta e nel momento opportuno ce la ricorda e la “agisce” come lei vuole. Se la mente invia un messaggio della paura dall’aspetto positivo, come un meccanismo di allarme che suona per consentire di scappare o di agire positivamente di fronte al pericolo, si riesce e darle un significato altrettanto positivo e a canalizzarla in energia efficace, ma se la mente invia un messaggio dall’aspetto negativo, allora la paura genera un’ansia paralizzante, il comportamento non sembra controllabile, il corpo sembra non rispondere ai comandi, reazioni psicofisiologiche scomode prendono il sopravvento e tutto sfugge al nostro controllo.

Vai, non aver paura, sali e combatti…”  Non si può chiedere di non aver paura nel judo.

Chi dice di non aver paura in realtà ne ha, forse non sa bene dove o come la sente o semplicemente per adattamento, ha già attivato spontaneamente una strategia di sopravvivenza che si concretizza nel nominarla con termini meno impattanti come malessere, collera, insicurezza, leggera ansia, nervosismo, “sono carico come una molla”, “non sento nulla”, “mi sento strano/a”, “e chi mi ferma più”. Modi, tentativi differenti di convincere la mente perché non presenti la paura.

Il bambino o l’adolescente rispetto ad un adulto, poiché ancora non hanno sufficienti strategie di sopravvivenza, è più facile che dicano “ho paura”.

Cosa fare? La strategia più efficace è aiutarlo a riconoscerla in tutti i suoi abiti così da poterla decodificare ridimensionare e sostituire con altra presenza positiva (la preparazione mentale, attività del professionista qualificato, aiuta a costruire uno schema mentale nuovo; è importante sapere come procedere per non dare messaggi non efficaci, di poca consistenza o poco duraturi e non adatti alla persona. Non siamo tutti uguali).

È necessario osservare con attenzione il comportamento che il judoka manifesta di fronte a più e differenti eventi per capire come strutturare un nuovo schema, per comprendere cosa gli accade quando pensa e prova paura e in che modo la somatizza.

La paura nel judo non è sinonimo di inferiorità, non è sinonimo di incapacità, di debolezza, semplicemente è uno stato d’animo umano normale che può celare insicurezza ma che è del tutto normale avvertire quando si affronta una competizione o una prova di qualunque livello questa sia. La paura è di tutti, quello che si differenzia in ognuno di noi è il valore e l’importanza e il significato che attribuiamo alla stessa.

La competizione o l’attimo in cui il judoka sale sul tatami di gara, rappresenta l’occasione in cui il judoka deposita sogni, desideri, obiettivi, in cui tanto c’è in gioco, il momento in cui c’è il suo ieri e dal quale forse dipende anche il suo domani. Si sente dire “tutto qui esattamente adesso”. Il judoka lo sa ed è per questo motivo che il sentimento della paura va rispettato.

“Maestro ho paura” … “ma no dai che paura … sali e pensa solo a divertirti … il resto non conta … paura e di cosa?”  Cosa può succedere in questo caso. Il bambino, ragazzo, adolescente porta uno stato d’animo, esprime l’emozione che in quel momento lui prova, sente e riconosce; espressioni come queste restituiscono l’assenza di riconoscimento della sua emozione e soprattutto nel caso del piccolo judoka, possono restituire un soffuso messaggio psicologico (non intenzionale per chi lo invia) che arriva come un “non credo a quello che dici, a quello che senti”.

Nella mente del piccolo judoka si crea una confusione, un suo equilibrio vacilla, quello che lui è certo di provare e a cui lui ha dato un significato non corrisponde con quello che arriva a lui dall’esterno. Nel tempo più restituzioni con questa caratteristica possono indurlo a non esprimere più a non esternare cosa sente e a somatizzare questa emozione attraverso altro canale (esempio il corpo).

Immaginate di avvicinarvi ad un amico con entusiasmo per salutarlo lui vi guarda e non vi stringe la mano, cosa provate? Questo è un po’ quello che accade, il bambino si avvicina porge un sentimento, una sua emozione all’altro e, non trova accoglienza.

Accogliere (ci sono specifici modi per fare questo) e dare un significato alla sua paura servirà ed aiuterà il bambino ad esperire la paura in modo efficace e adeguato al contesto (judo scuola vita sociale). Non è più coraggioso chi dice di non aver paura o di non essere preoccupato ma chi, piuttosto ne riconosce l’esistenza ed impara a gestirla ed indirizzarla correttamente.

La paura nel judo? “Guardami, ascoltami quando sono forte, quando sono felice, quando sono sicuro. Guardami, ascoltami mentre piango, mentre cado. Guardami, ascoltami quando ho paura, sono sempre io.”

Dr.ssa Loredana Borgogno

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scritto il 09 apr 2018
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