Il motivo che ha ispirato questa dissertazione fonda sulla lettura di un antico libricino, ”La ginnastica non è uno sport”, nel quale si afferma che essa supera il significato sportivo ed assurge ad attività morale, rafforzata nel concetto dalle affermazioni del fondatore della ginnastica italiana in persona, E. Bauman (1840-1916), che così recita: “Anche gli altri sistemi mirano, come il nostro, allo sviluppo fisico, ma noi corriamo verso una meta più elevata e più lontana, verso la formazione di un carattere forte, franco, fiero e fermo, mediante i movimenti che apportano al corpo salute, bellezza e forza”.
Nell’archivio del nostro vissuto abbiamo invece pescato i valori del judo, egregiamente enunciati dal fondatore, prof. J. Kano, che, nella fattispecie, aggiungendovi di suo “il concetto di cuore”, non si discostano molto da quelli della Ginnastica.
Bauman e Kano non ebbero occasione di discutere tra loro, ma naturalmente, come molti altri che non menzioniamo, amavano gli stessi principi universali, ed ognuno di essi, con la sua disciplina, cercava di divulgarli.
Assistiamo da sempre a dispute letterarie su quale sia lo sport più completo, quello che tutti i medici o educatori dovrebbero consigliare ai giovani, e quale di essi meriterebbe di essere inserito a scuola come materia curriculare.
Ebbene, noi del Judo subito ci facciamo subito avanti, dicendo: “Il nostro!”
La storia ci insegna in realtà che un messaggio morale ineccepibile nella sua purezza, od anche un’arte o abilità qualunque, assume valore in funzione di chi lo applica.
La parola del Vangelo, nelle mani di un Papa come il Borgia, ad esempio, o del suo buon collega, il pio… Bonifacio VIII, gran protettore di Dante Alighieri, assume un significato affatto diverso dall’originale.
Restando nello sport, nel judo, ad esempio, troviamo la logica del “minimo sforzo-massimo rendimento”, o “miglior utilizzo delle energie”. Nell’Atletica leggera riscontriamo come principio equivalente “l’economia del movimento”; e così via per tutte le altre attività motorie.
Il perseguire la padronanza di se stessi è un concetto ampiamente illustrato da Marco Aurelio un paio di millenni fa, come pure il più noto “mens sana in corpore sano”, da cui nessuna attività si discosta come criterio di base.
Quale disciplina dunque non richiama quei valori di lealtà, di correttezza, di controllo di se stessi o di rispetto delle regole? O che non miri alla socializzazione dei discenti? Probabilmente nessuna!
Il Rugby, le cui tifoserie avverse si scambiano doni e i vincitori offrono da bere agli sconfitti…potrebbe sentirsi escluso da quelle? E l’Atletica leggera, denominata regina di tutti gli sport? E la Scherma e il Canottaggio, con le loro tradizioni, dove le collocheremmo? E quale disciplina non trova le sue antiche tradizioni di cui vantarsi?
Siamo convinti che sia il “Maestro” a utilizzare quella disciplina come strumento per trasmettere ai suoi allievi quei valori formativi nei quali egli crede. Egli soltanto fa la disciplina, ne “santifica” il luogo e sancisce il valore della sua attività.
“Se l’ubriacone entra nella cella del convento, quella cella diventa la sua taverna… viceversa quando il monaco entra nella taverna, quella taverna diventa la sua cella”; così un buon maestro di judo fa della sua palestra un “Dojo” (luogo per migliorare), mentre un maestro mediocre, con le stesse tecniche, lo riduce ad un posto dove fare a botte.
Nelle arti marziali, ci si chiede spesso quale sia la “più micidiale”, quella che ha preso in prestito il pugno del pugile, il calcio frontale del Karate o quella tal tecnica di Judo o di Aikido, facendone un assemblaggio proprio, cui conferire le più recondite ed illustri origini.
Ebbene, per far chiarezza sull’argomento, usiamo un adagio anglosassone: “Ogni scarrafone è bello ‘a mamma soja”.
Citando poi uno stralcio de “a Livella” di Toto’: “Ma quali Natali, Pasque ed Epifanie?… morto sei tu e morto sono anch’io, queste pagliacciate le fanno solo i vivi , noi siamo seri, apparteniamo alla morte!”.
In conclusione, al di là dei luoghi comuni e delle battute, è bene che il primato e il concetto di unicità di cui molti credono di essere depositari nella propria specialità siano ricondotti ad un’osservazione più neutrale ed oggettiva.
Perdonino quindi quei lettori se, da quel "noi del Judo", abbiamo lasciato trasparire le nostri origini ed il nostro amore, ma, credete, “non s'è fatto apposta”.
Gennaro Lippiello
Dal combattimento all'individuazione dei fattori da allenare per la gara
Lo sguardo della pediatria sul judo
Didattica specifica, pari opportunita', politiche sociali